I cinque gol più belli del precampionato

14 agosto 2013

1. Andrea Lazzari (Udinese –  Siroki Brijeg 4-0)

2. Cristiano Ronaldo (Real Madrid – Chelsea 3-1)

3. Ever Banega (Valencia – Inter 4-0)

4. Nigel De Jong (Valencia – Milan 1-2)

5. David Villa (Las Palmas – Atletico Madrid 0-2)


Cassano al Parma, cronaca di una storia annunciata

4 luglio 2013

Cassano al Parma

A quasi 31 anni non è cambiato nulla. Antonio Cassano oggi è come cinque, dieci, venti anni fa. È ancora il ragazzino dei vicoli di Barivecchia che deve fare la faccia cattiva. Quello che ha sempre qualcosa da dimostrare. Quello che per diventare grande deve prima scavarsi la fossa. Quello che se vola troppo vicino al sole si brucia e cade giù. Quello che deve lottare su ogni pallone, come un mediano dai piedi arrugginiti, proprio lui, ironia della sorte, dotato di un talento immenso. Ma mai pienamente sbocciato. Perché quel talento è stato rischiarato a tratti, quando le nuvole andavano via. Ma queste poi puntualmente ritornavano. Antonio da Barivecchia ci ha lottato contro. Ma era come se un po’ si fosse innamorato di quelle nuvole. Le spazzava via con tocchi di genio in campo e le faceva ritornare un attimo dopo negli spogliatoi. Ha avuto la fortuna tra le mani e non ci ha pensato due volte a prenderla a calci. Come nel Real Madrid, l’esperienza più sfavillante eppure più sfortunata della sua carriera. Lo chiamavano “Talentino”, ci ha messo due minuti a diventare pasto per i giornali di gossip. La risurrezione in blucerchiato era troppo appagante, troppo estatica, troppo vera. Troppo per Antonio. Anche lì ha voltato le spalle alla felicità. Milano è stata l’ultima sua grande tappa calcistica. Tra rossoneri e nerazzurri è andata in scena l’ennesima puntata della sua telenovela. Sempre con quel retrogusto di incompiuto. Adesso riparte da Parma. Ma non ditegli che ha perso. In fondo, a Antonio piace così.


Quando il calcio italiano non crede ai propri giovani

6 giugno 2013

under21

 

Chissà se qualcuno, ai piani alti dell’Inter, si sia preso la briga di accendere la televisione e guardarsi la partita dell’Under 21 ai campionati europei di categoria, in corso in Israele. Il pacchetto difensivo della Nazionale di Mangia è il seguente: Bardi, Donati, Bianchetti, Caldirola, Biraghi. Tradotto nelle squadre dove hanno militato nell’ultima stagione: Novara, Grosseto, Verona, Brescia, Cittadella. Tradotto nelle squadre di appartenenza: Inter, Inter, Inter, Inter, Inter.

Chissà se qualcuno in casa nerazzurra ci ha fatto un pensierino a riportare questi giovani alla casa madre. Chissà se quel qualcuno nel frattempo si è ricordato che l’Inter ha appena concluso la stagione come seconda peggior difesa del campionato, con un totale di 57 reti subite. Quante il Siena retrocesso. Solo il Pescara ha fatto peggio.

I Caldirola, i Bianchetti, i Biraghi, sono giocatori giovani, che hanno bisogno di tempo e pazienza per crescere. D’accordo. Però devono avere la possibilità di farlo. Parcheggiarli all’infinito in squadre di B non li aiuterà di certo. Pensate a Caldirola, il capitano dell’Under. Dopo una stagione di altissimo livello a Brescia, dove da solo ha sistemato la solidità difensiva delle rondinelle, cosa ha fatto l’Inter? Ha pensato bene di lasciarlo ancora in serie B, prima a Cesena e poi ancora a Brescia. Dove ha continuato a fare benissimo, mentre i nerazzurri si disperavano per le deludenti prestazioni dei vari Silvestre e Juan Jesus.

Il salto di livello è sempre rischioso, ma è la strettoia necessaria che porta alla consacrazione di un calciatore. E non credete che i calciatori di cui sopra non siano pronti. Pensate a Verratti, passato in un anno dalla B alla Champions senza avvertire la differenza di vertigini, Florenzi che è stato un perno della Roma, Marrone e Insigne che sono già a loro agio con le maglie di Juve e Napoli.

In definitiva, quello che serve a questi ragazzi è qualcuno che creda in loro. Si parla spesso di giovani, ma sembra che valgano davvero solo quelli pagati a suon di milioni, presi magari dall’estero. E invece ce li abbiamo in casa. Non sempre l’erba del vicino è più verde.


Serie A, promossi e bocciati

23 Maggio 2013

PROMOSSI

JUVENTUS: È come se la carica agonistica di Conte avesse spazzato via una retrocessione in B, le mille delusioni, due settimi posti, tutte le scorie di Calciopoli. La Juve è tornata la corazzata dell’era Lippi e poi Capello. Campionato stradominato, disputato senza avversari. Da far paura(aaa).

UDINESE: Se vieni buttato fuori alle soglie del Paradiso per colpa di un “cucchiaio”, fai fatica a rialzarti. E la Sampdoria ne sa qualcosa. Invece l’Udinese, messe da parte le difficoltà iniziali, sarà ancora in Europa l’anno prossimo. Con un finale di stagione da otto (diconsi otto) vittorie di fila.

CATANIA: Quando ci accorgeremo degli “Special One” di casa nostra, sarà sempre troppo tardi. Forse Rolando Maran non avrà l’appeal di un Guardiola o la dialettica di un Mourinho, ma guardate dove ha portato il Catania. E senza episodi a sfavore, sull’Etna festeggerebbero altri traguardi.

BOCCIATI

INTER: A Stramaccioni, dopo le 16 sconfitte stagionali, gli è salita la febbre. E come non compatirlo, dopo una delle annate più disastrose della storia nerazzurra. Al netto di infortuni e congiunture astrali sfavorevoli, la gestione di Strama è stata pazzia. E l’inno non c’entra granché.

PALERMO: Sannino, Gasperini, Malesani, Gasperini, Sannino. Nella Roma del 69 d. C., l’anno dei quattro imperatori, c’era meno confusione. Zamparini fa e disfa come Penelope, atteggiamento sconsigliabile se hai a che fare con una squadra di calcio. Una retrocessione già scritta.

ROMA: C’è stato di peggio dei giallorossi, d’accordo, ma se stecchi il progetto per il secondo anno di fila qualche domanda devi iniziare a fartela. L’effetto Zeman è durato poco, fin troppo: tra partite perse in rimonta e imbarcate clamorose, la Roma ha buttato via un altro anno.


Squinzi, un uomo solo al comando

9 Maggio 2013

SassuoloUn uomo solo al comando. Un appassionato di ciclismo come lui gradirebbe quest’espressione: stiamo parlando di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria e noto ai calciofili per essere il patron del Sassuolo. Che in questo momento è una squadra sola al comando, in Serie B, e nel weekend potrebbe festeggiare la storica promozione in serie A.

Un uomo solo al comando, dicevamo, perché il Sassuolo è una sua creatura, plasmata con la filosofia dell’azienda di famiglia, quella Mapei che per anni è stata sinonimo di ciclismo e che oggi compare come sponsor sulle casacche della formazione emiliana. L’ascesa dei neroverdi è stata vertiginosa: Squinzi ha rilevato il club quando era in C2, nel 2004, e nel giro di pochi anni l’ha portata tra i cadetti. E ad un passo dalla serie A. Già lo scorso anno l’impresa poteva concretizzarsi: la formazione emiliana, guidata da Pea, era riuscita a mettere da parte la bellezza di 80 punti. Non sufficienti per la promozione diretta, guadagnata da Torino e Pescara. Ma i play off hanno avuto una coda amara: Sassuolo sconfitto dalla Sampdoria, in un duplice confronto venato da dure contestazioni da parte degli emiliani per l’arbitraggio sfavorevole. “Ci hanno sottratto la promozione”, lo sfogo di Squinzi, che quasi meditava di lasciare.

Non le manda a dire, Squinzi, e nell’incontro organizzato con la Scuola di giornalismo “Walter Tobagi” di Milano ha palesato tutta la propria franchezza, da uomo schietto e leale. Un uomo di sport che crede fortemente nell’etica sportiva, tanto da accettare di separarsi dal suo sport prediletto, il ciclismo, quando il  proprio corridore Stefano Garzelli fu trovato positivo ad un controllo antidoping, nel 2002. E così si chiuse la parentesi delle due ruote e si aprì quella del pallone. Nel 2004 il Sassuolo era in vendita: la società era fallita e il costo era irrisorio, appena 35.000 euro. Squinzi ricorda: “Da Sassuolo mi chiamarono per sapere se fossi interessato alla società. Io non avevo intenzione di rilevarla, ma poi seppi che la Kerakoll (azienda concorrente, ndr) aveva fatto un’offerta. Allora, per dispetto, comprai io il club”. Un Sassuolo che aveva persino una sponda in Vaticano: “Abete mi disse che il cardinal Ruini aveva a cuore la squadra”.

La  prima grande soddisfazione nel 2008, quando il Sassuolo, con Massimiliano Allegri in panchina, centrò la promozione in serie B. “Allegri è un grandissimo allenatore – afferma Squinzi -. Se fosse rimasto con noi, a quest’ora saremmo già in serie A. A volte mi capita di parlare con Berlusconi e lui mi dice che Allegri non capisce granché di calcio. Io non sono d’accordo, sono milanista anch’io e credo che con quello che aveva a disposizione quest’anno non poteva fare di più”.

Ma il salto in A sarebbe qualcosa di fenomenale per una cittadina di poco più di 40.000 abitanti. “Dal dopoguerra, saremmo la squadra con la città più piccola rappresentata nella massima serie”, ricorda Squinzi. Con quali programmi? “Non faremo follie. Cercheremo di conquistare la salvezza puntando sui giovani. È questa la nostra filosofia, puntiamo sulle promesse e gestiamo la squadra in prima persona, senza procuratori o maneggioni. Una filosofia che ci ha portato lontano: siamo primi in classifica senza avere un budget di oltre 20 milioni di euro, come nel caso del Padova”. A proposito di giovani, tra i tanti messisi in evidenza quest’anno c’è Domenico Berardi, giocatore offensivo classe ’94 e già nel mirino dei principali club europei. Squinzi non nasconde che gli sono arrivate offerte al riguardo: “Il Manchester City ha offerto 7 milioni di euro per la metà, ma noi abbiamo rifiutato. Berardi lo abbiamo pescato mentre giocava su un campetto di calcio, non aveva neanche una squadra. Era un fenomeno e lo abbiamo messo sotto contratto”.

Infine, Squinzi chiude con una battuta: “Cosa chiedo al Sassuolo in serie A? Di battere l’Inter a San Siro”.


Il meglio e il peggio: trentatreesima giornata di serie A

22 aprile 2013

vidal_juventus_milan

 

IL MEGLIO

JUVENTUS: La preoccupazione più grande per i bianconeri adesso è: quale marca di champagne scegliere? Il finale di campionato è una formalità, ma la Juve continua a premere sull’acceleratore: battuto anche il Milan, nonostante una prova non brillantissima. A luccicare, ci penserà la coppa da mettere in bacheca.

JONATHAN: O qualcuno ha messo qualche strana sostanza nelle bevande servite a San Siro, oppure è tutto vero. Il nerazzurro che impazza sulla fascia destra è proprio lui, Jonathan. È uno stantuffo, in Coppa Italia segna il suo primo gol e contro il Parma serve l’assist vincente. Se lo vedesse Ovidio, ne parlerebbe nelle Metamorfosi.

CUADRADO: Prima era il Colombia Express, adesso è un Colombia Deluxe. Non è più solo velocità e dribbling: è anche intelligenza tattica e qualità. Vedere per credere il gol rifilato al Torino: pallonetto delizioso che va a morire dove Gillet non può arrivare. Salite sul Colombia Deluxe: destinazione Europa.

IL PEGGIO

DE LAURENTIIS: “Questa vittoria la dedico a Cellino, Astori e Nainggolan”. Festeggia con questo tweet Aurelio De Laurentiis la vittoria del suo Napoli sul Cagliari, rivangando affari di mercato mancati non ancora digeriti. Eppure, c’è qualcosa di più inarrivabile rispetto a Nainggolan e Astori: lo stile.

SCHELOTTO: La sua avventura in nerazzurro, quello nobile, sta diventando un’odissea. Il gol contro il Milan è stato il canto delle sirene: Schelotto l’ha ascoltato e da allora è precipitato negli abissi. Delude ancora contro il Parma: nel primo tempo un errore da cerchiare con la matita blu, a coronamento di una prestazione inquietante.

SIENA: In campo contro il Chievo, sa già del mezzo passo falso del Genoa e delle difficoltà del Palermo nel derby. Una vittoria significherebbe l’ipoteca sulla salvezza, invece ne esce un pasticcio. La sconfitta tiene in ansia i bianconeri, che in casa non segnano da febbraio: questo sì che vuol dire complicarsi la vita.

 


Il meglio e il peggio: trentaduesima giornata di serie A

15 aprile 2013

Vidal

IL MEGLIO

VIDAL: Spetta al “guerriero” ferire la bestia. Cioè la Lazio, la bestia nera: quest’anno, la Juve non aveva mai battuto i biancocelesti e il doppio confronto in Coppa Italia le è costata l’eliminazione. Ma a un metro dai festeggiamenti per lo scudetto, la vendetta è servita: il cileno firma all’Olimpico la doppietta decisiva. Come decisivo è lui nella Juve.

MURIEL: Lo chiamano il Ronaldo di Colombia, un motivo ci sarà. Non per la pancetta come insinua qualche maligno: i colpi del campione Muriel ce li ha davvero. E decide di palesarli in un afoso pomeriggio d’aprile: divora il Parma con tre giocate da urlo, tra cui due gol e una galoppata fulminante a ispirare il 3-0 dell’Udinese. Hai capito il Gordito?

PINILLA: La doppietta rifilata all’Inter consegna la matematica salvezza al suo Cagliari. Poi, dopo i gol, non ha molta voglia di festeggiare, forse per rispetto della sua ex squadra, nella quale ha mosso i primi passi calcistici in Italia (pur senza mai debuttare). O forse per senso di colpa, perché a fine gara confessa: “Mi sono tuffato nell’occasione del rigore”. Di questi tempi, meglio non solleticare i nervi scoperti dei nerazzurri.

IL PEGGIO

INTER: Al peggio non c’è mai fine. Già, ma qual è il peggio? Perdere in casa il derby d’Italia? Naaa. Suicidarsi contro l’Atalanta? Nemmeno. Farsi impallinare da un Cagliari già in costume da bagno? Forse tutto questo. I nerazzurri sono colti dal terrore di scendere in campo, come se fossero vittime sacrificali. Tra sviste arbitrali, assenze, strategie sconclusionate (i difensori ormai fanno gli attaccanti), l’Inter è un trattore nel bel mezzo di un Gran Premio di Formula Uno.

SORRENTINO: Se il Palermo ha una certezza, questa si chiama Sorrentino. Anzi, si chiamava. Perché al minuto 17 di un Palermo-Bologna vitale per i rosanero commette uno scivolone da Paperissima, come un pattinatore goffo sul ghiaccio. Solo che, nel caldo siciliano, a restare di ghiaccio sono solo i tifosi di casa: il cammino della salvezza è sempre più in salita.

GENOA: D’accordo, l’orgoglio è salvo, il derby è finito in parità: ma la settima partita di fila senza vittorie, quando il vicolo della salvezza si fa sempre più stretto, non può essere salutato come un successo in casa rossoblù. Contro la Samp, occorreva un Genoa vibrante, palpitante, assatanato, non nervoso e in preda al disordine tattico com’è stato. Alla fine, un cross sballato ha salvato la faccia: ma basterà?

 


Non è una coppa per vecchi (e italiani)

12 aprile 2013

borussia_dortmund

Non ci sono italiane, c’è il meglio del calcio europeo. Due proposizioni che, purtroppo, sono tenute insieme da una relazione stringente: nei tapponi di montagna, le squadre italiane perdono contatto con i primi della classe. Spagna e Germania hanno portato in semifinale di Champions due rappresentanti a testa, lasciandoci con il cerino in mano e la convinzione che il calcio nostrano sia un gradino sotto i colossi d’Europa. Tra le magnifiche quattro manca anche l’Inghilterra, la cui bandiera però sventola ancora in Europa League grazie al Chelsea. Il nostro tricolore, purtroppo, è ammainato.

Che il calcio italiano viva un momento di sofferenza è un dato di fatto. Una sofferenza economica, di idee, di cultura sportiva. I nostri euroavversari ci mangiano in testa: noi, per loro, siamo solo “chiacchiere e distintivo”.

Non è tutto da buttare. La Juve è il punto di riferimento, sia per l’idea tattica di Conte sia per il modello gestionale, dove lo stadio di proprietà è il fiore all’occhiello. Però, oltre i bianconeri, il nulla. Il Milan vive più di guizzi che di progetti, più di star che di collettivo. L’Inter ha vissuto l’epopea felice con Mourinho, ma dopo l’addio con il portoghese si è ridotta a carta straccia: simul stabunt, simul cadent. Un rischio che, in realtà, potrebbe correre anche la Juve quando Conte farà i bagagli.

E quindi come raggiungere chi sta più in alto? Il calcio italiano è in perdita cronica e grossi investimenti non se ne possono fare. Passata l’era d’oro del calciomercato in versione supermarket, si è palesata la pochezza di intuizioni: c’è chi ha fatto e disfatto, chi ha ricoperto d’oro totem senza alcuna potenza agonistica, chi ha rastrellato il più che poteva senza badare al coefficiente utilità. Ma senza una grossa disponibilità economica è comunque possibile costruire grandi squadre: il Borussia Dortmund, che nel 2005 è stato vicino al fallimento e ha rischiato di salutare la Bundesliga, è oggi in semifinale di Champions e con i titoli tedeschi delle ultime due stagioni in bacheca. Senza svolazzi, con un’idea di gioco forte ed efficace. Presupposto fondamentale: la fiducia in una crescita costante. Dopo il flop europeo dello scorso anno (4 punti nel girone piuttosto agevole con Arsenal, Marsiglia e Olympiakos), quest’anno la squadra di Klopp è stato un rullo compressore ed è l’unica formazione imbattuta della competizione. Un esempio che può far ben sperare la Juve per il futuro e indirizzare il nostro calcio verso un processo affine.


Juventus-Inter: la moviola più lunga della storia

29 marzo 2013

La madre di tutte le polemiche. Il contrasto Iuliano-Ronaldo. Anche se i tifosi interisti lo ricordano con rabbia e quelli juventini sghignazzano divertiti, quell’episodio è una pagina storica del calcio italiano. Non è una bella pagina di storia? Non importa, ormai è mito. Come la guerra di Troia.

26 aprile 1998, il giorno dello scontro diretto tra le due formazioni in lotta per lo scudetto. La Juve ha un solo punto in più dell’Inter: 66 a 65. I bianconeri hanno conservato la vetta nel turno precedente vincendo a Empoli una gara contestatissima per un episodio pro juventini: il famoso colpo di testa di Bianconi che aveva varcato la linea per tutti, tranne per la terna arbitrale. Immaginate il clima che si respirava alla vigilia. Immaginatevi lo stato d’animo dell’arbitro che di lì a poco avrebbe legato il suo nome a quel match: Ceccarini di Livorno. L’avvocato Prisco, con una delle sue battute salaci, disse alla vigilia: “Speriamo che l’arbitro sia daltonico, così da non lasciarsi influenzare dal colore delle maglie”. Ma, prima del putiferio generale, si assiste a una partita agonisticamente valida. La Juve passa in vantaggio nel primo tempo con una magia di Del Piero. L’Inter spinge ma non fa male. Nella ripresa il fattaccio. È il minuto 65 quando accade il patatrac. Palla vagante in area, Ronaldo è in anticipo su Iuliano. Il difensore bianconero, tagliato fuori, impatta contro il brasiliano. Tutti e due vanno a terra, ma Ceccarini lascia proseguire. È caos. Simoni, allenatore dell’Inter, arriva fin quasi a centrocampo. Il guardalinee lo va a recuperare e quasi lo porta di peso nell’area di competenza. Ma non finisce qui: sul capovolgimento di fronte, West atterra Del Piero. E questa volta il rigore c’è. Per la Juve. Apriti cielo. Ceccarini rischia il linciaggio. Dal dischetto Pagliuca stopperà Del Piero, ma ormai quant’era successo era indelebile. La Juve vinse 1-0 e di conseguenza si aggiudicò il campionato.

Se digitate su un qualsiasi motore di ricerca “Iuliano – Ronaldo”, vi accorgerete che le polemiche non si sono placate neppure al giorno d’oggi. La moviola più lunga della storia. C’è chi dice rigore sacrosanto, chi sfondamento da parte del brasiliano. C’è chi intervista Iuliano appositamente per conoscere la sua versione dei fatti e c’è Ceccarini che, a distanza di anni, fa mea culpa. Anche questo è Juve-Inter.


Juventus-Inter: i dolori del giovane Collina

28 marzo 2013

Juventus e Inter scaldano i motori. Sabato alle 15 andrà in scena una nuova puntata di una sfida che non smette mai di appassionare. Perché il derby d’Italia non è solo un cesto di veleni e di sfottò. È fascino puro.

Raccontate a Gervasoni e Maggiani, gli autori del “misfatto” arbitrale di Catania, che in principio fu Collina. Che anche il miglior arbitro d’Italia ci cascò, in un Inter-Juventus del 9 marzo 1997. Convalidò una rete di Ganz e poi ci ripensò. Prendendo, in quel caso, la decisione esatta. Ma che fatica.

Minuto otto di un Inter-Juventus che potrebbe riaprire i giochi del campionato. Lancio in verticale di Zanetti, sponda di Zamorano per lo scatto di Ganz che, dopo la respinta di Peruzzi, ribadisce in rete. I giocatori dell’Inter festeggiano, quelli della Juve chiamano a gran voce il fuorigioco. C’è tutto, per carità. Ma non è stato sbandierato. Collina convalida il gol, ma nel frattempo ci pensa. E il verdetto decisivo è improvvisamente un altro: è fuorigioco. E giù polemiche. Né più né meno di quanto accaduto a Catania domenica scorsa (con l’aggravante che si trattava di un Inter-Juventus). Allora Facebook non esisteva ancora e i presidenti delle squadre non potevano controllare se gli arbitri interessati facessero sfoggio di scudetti a strisce bianconere sui propri profili. Ma i toni usati da Moratti a fine gara sono molto simili a quelli di Pulvirenti: “In 45 anni di calcio non mi era mai capitata una cosa del genere. E’ stata inventata una nuova regola. Abbiamo visto qualcosa di molto futuristico, anche se il fuorigioco c’era. Il gol era stato assegnato ed è inconcepibile che venga annullato per le proteste degli avversari”. Per placare le polemiche, Collina dovette addirittura intervenire in prima persona: in un primo momento aveva creduto che il colpo di testa che aveva liberato Ganz fosse stato di Montero e non di Zamorano, come invece fu. La correzione, se non altro, si rivelò esatta.

Finì con uno 0-0 che permise alla Juventus, poi campione d’Italia, di mantenere sette punti di vantaggio sui nerazzurri. Ma oggi è un’altra storia. Forse.


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