Cassano al Parma, cronaca di una storia annunciata

4 luglio 2013

Cassano al Parma

A quasi 31 anni non è cambiato nulla. Antonio Cassano oggi è come cinque, dieci, venti anni fa. È ancora il ragazzino dei vicoli di Barivecchia che deve fare la faccia cattiva. Quello che ha sempre qualcosa da dimostrare. Quello che per diventare grande deve prima scavarsi la fossa. Quello che se vola troppo vicino al sole si brucia e cade giù. Quello che deve lottare su ogni pallone, come un mediano dai piedi arrugginiti, proprio lui, ironia della sorte, dotato di un talento immenso. Ma mai pienamente sbocciato. Perché quel talento è stato rischiarato a tratti, quando le nuvole andavano via. Ma queste poi puntualmente ritornavano. Antonio da Barivecchia ci ha lottato contro. Ma era come se un po’ si fosse innamorato di quelle nuvole. Le spazzava via con tocchi di genio in campo e le faceva ritornare un attimo dopo negli spogliatoi. Ha avuto la fortuna tra le mani e non ci ha pensato due volte a prenderla a calci. Come nel Real Madrid, l’esperienza più sfavillante eppure più sfortunata della sua carriera. Lo chiamavano “Talentino”, ci ha messo due minuti a diventare pasto per i giornali di gossip. La risurrezione in blucerchiato era troppo appagante, troppo estatica, troppo vera. Troppo per Antonio. Anche lì ha voltato le spalle alla felicità. Milano è stata l’ultima sua grande tappa calcistica. Tra rossoneri e nerazzurri è andata in scena l’ennesima puntata della sua telenovela. Sempre con quel retrogusto di incompiuto. Adesso riparte da Parma. Ma non ditegli che ha perso. In fondo, a Antonio piace così.


Uno scudetto non fa Primavera

18 giugno 2013

Bari-Milan primavera

 

Avevamo vent’anni. O forse meno. Eravamo gli Ingrosso, i La Fortezza, i Chisena. Dovevamo essere i campioni del futuro. Dovevamo. Ma il calcio non segue mai una linea dritta. Come un pallone che rotola, a volte può prendere traiettorie inaspettate, imbizzarrite. C’è chi tempo fa era atteso dai grandi palcoscenici della serie A e oggi bazzica campi nascosti in periferia, dove manca l’erba e la terra è dura. Dura come può essere la ripida discesa di chi ha visto il Paradiso e poi ne è rimasto bruciato.

C’è un’intera squadra che gli almanacchi li ha solo sfiorati. Compaiono quali campioni d’Italia Primavera. Hanno il pedigree per giocare ai livelli che contano. E invece sono spariti. Andatevi a leggere la formazione della Primavera del Bari del 2000. I biancorossi che superarono il Milan in finale, aggiudicandosi lo scudetto di categoria, erano questi: Narciso, Carrozzieri, Ingrosso, Abbrescia, Antonelli, Fumai, La Fortezza, Berardi, Davanzante, Chisena, Enyinnaya. Quasi tutti hanno fatto perdere le loro tracce. Il solo Carrozzieri (autore del gol decisivo nella finale) si è confermato a buoni livelli, ma con fortune alterne: tra la squalifica di due mesi per calcioscommesse e quella di due anni comminata per essere risultato positivo alla cocaina, la sua carriera ha subito qualche frenata di troppo. Di Enyinnaya e della sua serata magica contro l’Inter, rimasta un fulgido bagliore, se ne parla in un altro articolo del blog. Gli altri sono illustri sconosciuti. C’è chi è salito alla ribalta delle cronache per questioni extrasportive: il portiere Narciso, ad esempio, anche lui squalificato per calcioscommesse (un anno e tre mesi per fatti ai tempi del Grosseto). Ma la maggior parte non ha visto la B neanche da vicino. Eppure le prospettive erano tutt’altre. Antonio La Fortezza era stato ribattezzato il nuovo De La Peña. Si vociferava che anche l’Inter avesse messo gli occhi su di lui. E invece l’unico nerazzurro che ha visto è stato quello del Bisceglie, squadra di cui è tuttora capitano. Barcamenandosi tra serie D e Eccellenza, come aveva fatto anche prima con le maglie di Matera, Molfetta, Trani, Fasano. In Eccellenza ci sono finiti pure Ingrosso, prima col Bisceglie e ora col Cerignola, e Fumai, che milita nel Monopoli. Berardi e Chisena hanno passato in rassegna la serie D, cimentandosi con le casacche di Luco Canistro, Amiternina, Francavilla e Real Metapontino, per fare due nomi.  Non sempre uno scudetto fa Primavera.


Il meglio e il peggio: ventiduesima giornata di serie A

28 gennaio 2013

inter_torino_meggiorini

IL MEGLIO

MEGGIORINI: Dove c’è Barreto c’è gol. È bastato ritrovare il suo gemello d’attacco dei tempi del Bari per permettere a Meggiorini di sbloccarsi in campionato e mettere a segno la sua prima doppietta in serie A. Ha aspettato il momento migliore per farlo: si è scelto il palcoscenico più prestigioso e, come l’anno scorso, nelle sue grinfie da goleador-maratoneta ci è finita di nuovo l’Inter.

ICARDI: La stoffa del bomber c’è, la Nazionale forse. Le parole d’elogio spese da Prandelli per questo ragazzone maturato sotto il sole di Barcellona non hanno lasciato indifferente l’attaccante blucerchiato. Il poker con cui ha scaraventato il Pescara gambe all’aria è un segnale forte e chiaro: per chi se lo troverà di fronte, ma da oggi anche per il ct azzurro.

NAPOLI: Un conto è espugnare il campo più inespugnabile d’Italia, un altro è farlo sapendo della frenata della Juve. Il Napoli era di fronte alla prova del nove: vincere a Parma per dimostrare di essere da scudetto. Finora, da scudetto lo è stata la rimonta: da dieci (compresa la penalizzazione) a tre punti di distacco in appena un mese: attenzione, perché lo scontro diretto sarà a Fuorigrotta.

IL PEGGIO

LAZIO: Il pareggio di Palermo aveva fatto già scattare un campanello d’allarme. Nessuna meraviglia, perciò, che i biancocelesti ne combinino una ancora peggiore, con il Chievo che si impone all’Olimpico e interrompe la luculliana striscia di 16 risultati utili consecutivi. Il principale gap con la Juve? Senza i titolarissimi, Petkovic ha una Lazio tetra e inconcludente.

ROMA: Un mese di campionato è trascorso senza che la Roma abbia festeggiato lo straccio di una vittoria. Il finale con botto del 2012 non ha avuto l’appendice sperata nel nuovo anno: i giallorossi hanno ritrovato l’anima pasticciona di inizio stagione, fanno e disfano come Penelope con la sua tela. A Bologna il festival di gol e errori: la Roma si trova in un frullatore.

ROSINA: Il Siena in questo momento è un corridore in affanno, con la lingua penzoloni, costretto a inseguire da lontano i concorrenti perché si è perso il segnale di start. Certo è che il suo giocatore più rappresentativo dopo l’addio di Calaiò, Alessandro Rosina, tradisce sempre quando non dovrebbe. Dopo il rigore fallito a Torino, grazia l’Udinese in almeno due circostanze. Con la lingua penzoloni.


Quando Antonio Conte era meglio di Mourinho (e lo è tuttora), parte seconda

31 dicembre 2012

CONTE BARI(segue)

Conte aveva tutto contro. Una situazione di classifica preoccupante, una società poco disposta a intervenire sul mercato, una squadra in difficoltà psicologica e con poca qualità, una tifoseria che nutriva più di una perplessità. Ma tutto questo non fu un problema per lui. Conte rivoluzionò la squadra su due livelli: quello tattico, nel proporre un calcio propositivo e pragmatico, e quello psicologico, nell’imprimere una mentalità vincente e nel tirare fuori dai giocatori il meglio di sé. I risultati si videro subito. La squadra risaliva una china che sembrava irreversibile e in pochi mesi si assestò in una zona di classifica tranquilla. A maggio, il Bari si prese pure la soddisfazione di battere in trasferta il Lecce proiettato verso la serie A: Conte era entrato nel cuore dei tifosi baresi.

Il confortante scorcio di campionato con Conte in sella lasciava presagire un campionato privo di stenti per il Bari, l’anno successivo. Al San Nicola la gente cominciava a tornare, dopo anni di diserzione, convinta da una squadra volenterosa e ben organizzata dal suo condottiero. I biancorossi, ai nastri di partenza, erano una delle outsider del campionato: possono far bene, forse raggiungono i play off. E questo, ai tifosi baresi, già bastava. Ma Conte guardava oltre. Quella squadra l’aveva voluta lui, l’aveva plasmata lui, le aveva dato un’anima. E una missione: vincere. La cavalcata trionfale del Bari non fu priva di ostacoli. Ma quella squadra aveva la scorza dura del suo allenatore: se cadeva, si rialzava prontamente. E quando imparò a non cadere più, non ce ne fu più per nessuno. Il Bari chiuse il campionato al primo posto con 80 punti e tornò in serie A dopo un’attesa lunga otto anni. Conte accettò di restare a Bari, salvo poi essere messo alla porta da Matarrese appena venti giorni dopo aver firmato il rinnovo del contratto. Divergenza di vedute sul mercato, la versione ufficiale. Paura di volare, in poche parole. Quella che Conte non ha mai avuto: i successivi trionfi a Siena e con la Juve ne sono la riprova. Adesso, Conte lo sa, può vincere anche in Champions, magari in una sfida contro Mourinho. Per dar ragione a quanto urlava all’antistadio quel tifoso del Bari, innamorato di quella squadra e di quell’allenatore.


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